Alla profonda trasformazione dei comportamenti, alle radicali riforme strutturali, che questa drammatica ed inimmaginabile esperienza imporrà su tutti i versanti del vivere sociale ed economico, non dovranno restare estranei i rapporti tra Fisco e Contribuenti. I Dpcm di prima emergenza e la circolare del direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini (un collega avvocato con il quale ho avuto il piacere di collaborare e che, nel suo rientro al vertice del Fisco, porta la competenza e l’esperienza del suo ricco percorso pubblico e privato), hanno concesso una tregua – la sospensione dei termini processuali, ora sino all’11 maggio (con eccezioni), ed il congelamento delle ispezioni, delle cartelle e degli accertamenti tributari fino al 31 maggio – quale misura di buon senso e realismo.
Le dichiarazioni di ieri del premier Conte, sulla Fase 2, non fanno, però, riferimento ad un allungamento dei termini (che, negli scorsi giorni, fonti ufficiose davano fino al 30 settembre). Un’attesa tradita: se non interverranno cambiamenti, dal 1° giugno si riaprirà la kermesse di accertamenti, verifiche e pignoramenti, giusto per fare riprendere confidenza con le abitudini interrotte e dare una bella pacca sulle spalle di cittadini traumatizzati, ad onta del distanziamento sociale.
L’atmosfera “sospesa” respirata in questi durissimi mesi ed il distacco fisico dei titolari dalla gran parte di aziende, esercizi commerciali, botteghe artigiane e studi professionali, hanno fatto percepire in maniera sfumata, e comunque sicuramente parziale, i dirompenti effetti del lockdown, del rinvio delle udienze, del crollo della domanda di consumi, dell’annunciata chiusura di numerose realtà produttive, specie nei settori legati al turismo.
Quando, purtroppo, la crisi da Covid 19 farà bruciare, accanto alle ferite dell’anima, quelle delle attività economiche, nulla potrà essere come prima, anche nel cosiddetto patto fiscale con cui si bilanciano (in modo molto precario e controverso) il dovere di contribuzione dei cittadini e l’obbligo dello Stato di garantire i servizi essenziali.
In primo luogo, la pandemia che ha travolto il Paese pone un avvertimento, che dovrebbe spazzare via un pregiudizio che ha sempre deformato la narrazione del lavoro autonomo: il rischio delle iniziative cosiddette “libere” è molto più elevato di quanto racconti certa retorica.
È davvero, per così dire, “dietro l’angolo”, perché, come dimostra questo terribile evento, possono sopraggiungere incursioni capaci di dissolvere, e non solo ridimensionare, storie industriali, commerciali, artigianali, professionali, costruite faticosamente nel tempo, spesso di generazione in generazione.
Bastano due mesi di mancate entrate e limiti improvvisi alle modalità di offerta di beni e servizi, per mettere in discussione presupposti e convenienza alla stessa riapertura.
Ed allora, una nuova, doverosa consapevolezza della fragilità di questo universo non può prescindere da una drastica revisione dei paradigmi tributari: a partire dalla riduzione della pressione fiscale, che non può essere ulteriormente rimandata.
Si dirà: proprio ora, lo Stato non può permettersi perdita di gettito, onde coprire, soprattutto, fondamentali investimenti in favore della sanità.
Al contrario, proprio adesso il carico fiscale risulta intollerabile per imprese ed esercenti professioni e la conferma di tributi, balzelli ed aliquote vigenti (come se niente fosse successo), costituirebbe la più forte spinta (un “suicidio assistito”) alla resa totale di partite Iva già scosse da scenari ed adempimenti inediti e complessi, ai limiti della praticabilità: dal distanziamento sociale in bar, ristoranti e negozi, agli enormi costi di sanificazione e sicurezza sanitaria degli ambienti; dallo sconvolgimento del turismo alla paralisi dell’edilizia.
L’Amministrazione Finanziaria dovrebbe capire che la sopravvivenza di entità economiche (incoraggiata dall’alleggerimento della tassazione) significa permanenza di soggetti fiscali, idonei a restituire domani, rimanendo sul mercato, ciò che oggi gli venga abbuonato.
Il Governo non ha immesso flussi di liquidità nel sistema e le misure di accesso ai prestiti si rivelano più funzionali al pagamento delle imposte che alla effettiva ripresa della macchina produttiva. Un circuito vizioso: prospettiva di nuovi debiti per imprese che, magari, vantano ancora consistenti crediti verso la Pubblica amministrazione.
Allora, una ulteriore proroga dei termini di versamento delle imposte diventa un passaggio obbligato, per far sì che quel poco di liquidità che circola nel Paese possa essere destinato al rilancio delle cellule produttive.
Anche riduzioni o, meglio, esoneri temporanei da tributi locali (dall’Imu alla tassa di occupazione di suolo pubblico) sono consigliati dalle peculiarità della congiuntura (pensiamo a bar e ristoranti “costretti” a collocarsi all’esterno).
Non basta. Ad alcuni tributi – si pensi all’Irap – si dovrebbe avere finalmente il coraggio di dire addio: un’imposta che “punisce” la produzione, perennemente sospettata di incostituzionalità, non ha più ragione di esistere, anche per evitare potenziali, nuove trappole interpretative.
Ad esempio, diventerà di per sé espressione di organizzazione (e dunque presupposto di imponibilità) l’introduzione (in studi professionali individuali finora imperniati sulle prestazioni intellettuali) di dotazioni telematiche finalizzate allo smart-working e di altri strumenti suggeriti od imposti dalla Fase 2?
Si continueranno a discriminare gli studi associati (soggetti ad Irap “a prescindere”), in un momento in cui le reti professionali possono essere un’ancora di salvezza?
L’espulsione di questo tributo tanto (giustamente) vituperato potrebbe inoltre consentire di avvalersi di collaborazioni (quanto mai utili per offrire un approdo alle partite Iva più deboli), senza doversi “consegnare” alla categoria dei soggetti Irap.
Più in generale, il rivoluzionato quadro d’insieme detta l’imperativo delle semplificazioni, ovvero un deciso rovesciamento delle cattive prassi di proliferazione ed indecifrabilità dei testi normativi.
Suggerisce l’utilizzo della leva fiscale per rianimare i settori più colpiti (ad esempio le detrazioni fiscali per le vacanze in Italia allevierebbero le sofferenze del turismo, così come incentivi più alti a riconversioni e ristrutturazioni abitative darebbero ossigeno alle imprese di costruzioni) o per incoraggiare le buone pratiche (aliquote di favore od esenzioni Iva per tutti i dispositivi di protezione aziendale e personale).
Si richiedono cambiamenti di spartito anche nei metodi di accertamento e nel processo tributario.
I sistemi forfetari poggiati sulle presunzioni e gli indici di affidabilità economica sono ora fuori contesto, quasi ai limiti dell’eresia: ciò che, in termini di redditività media, poteva valere fino a ieri, oggi è, ahimè, carta straccia.
Peraltro, le famose pagelle fiscali che, nelle buone intenzioni dell’Erario, dovevano premiare le dichiarazioni più fedeli, sono state, di fatto, bocciate dallo stesso Governo, al primo esame: dai bonus di 600 euro e da altre provvidenze sono rimasti fuori redditi, magari di poco superiori ai 50 mila euro lordi, che probabilmente erano lo specchio di denunce dei redditi con votazione fiscale più alta, perché più congrui e veritieri.
Un’altra prova di merito non riconosciuto (rectius, mortificato) dallo Stato e di indifferenza (se non ostilità) verso i ceti medi di imprenditori e professionisti che abbiano conseguito – e dichiarato – guadagni dignitosi.
60mila euro lordi annui, tanto per esempio, corrispondono, al netto di imposte e contributi previdenziali, a circa 2.500 euro netti al mese: in famiglie mono-reddito e con figli a carico, tanto più se riferiti, necessariamente, a periodi d’imposta ante Covid, non significano affatto assenza di bisogno di sostegni in questo straordinario momento storico (la perdita del Pil viene stimata nell’ordine del 20 per cento per il 2020, con prospettive altrettanto nere per il 2021).
Bisogna uscire dall’equivoco secondo il quale i redditi medi sono sinonimo di autosufficienza ed impermeabilità: di solito, appartengono alle categorie che impiegano più personale, offrono sostegno alla Previdenza Pubblica e Privata, creano ricchezza indotta.
Redditi di ultima istanza ed attenzioni ai redditi di impresa e lavoro autonomo assolvono a funzioni complementari, e non antagonistiche: i primi danno risposte ai modelli di una società realmente solidale; le seconde ai fabbisogni di sopravvivenza, rilancio e progresso dell’economia e dell’occupazione.
Ergo, alla tenuta dei bilanci privati e pubblici
Articolo dal “Primo Piano” del 28 aprile 2020