di Antonio Mancini
L’epidemia che ha colpito il Paese ha portato prepotentemente alla ribalta lo strumento dello smart working, determinando il ricorso massivo allo svolgimento della prestazione lavorativa all’esterno dei locali aziendali, e prevalentemente dall’abitazione del dipendente.
Il lavoro agile come anticorpo alla chiusura dei servizi fondamentali.
Lavorare da remoto è diventato un potente, moderno ed efficace mezzo di contrasto alla paralisi totale delle attività produttive, anche di quelle fornitrici di servizi essenziali. Una soluzione imposta dalla straordinarietà ed imprevedibilità dell’evento e dal bisogno di conciliare due valori costituzionalmente protetti, quali il diritto dell’individuo e della collettività alla tutela della salute (art. 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.).
E’ evidente come, senza il ricorso allo smart working, diventi difficile armonizzare la necessità di limitare le occasioni di contagio, gli spostamenti sul territorio, con l’esigenza di garantire la continuità dei servizi per contenere danni economici e disagi sociali.
In Italia il “lavoro agile” è stato fino ad oggi una pratica limitata, confinata prevalentemente alle grandi organizzazioni private. Nel 2018, secondo l’Eurostat, l’11,6% dei lavoratori europei alle dipendenze di imprese o organizzazioni pubbliche praticava smart working, lavorando da casa saltuariamente (8,7%) o stabilmente (2,9%), grazie alle opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie. In Italia, la percentuale si fermava al 2%, interessando soltanto 354 mila lavoratori dipendenti rispetto ad una platea di 8 milioni e 539 mila potenzialmente occupabili, così collocando la nostra nazione in fondo alla classifica Ue, poco sopra Cipro e Montenegro, ma profondamente distante da Paesi come Regno Unito (20,2%), Francia (16,6%) o Germania (8,6%).
Invero, quello che molte persone si sono ritrovate improvvisamente ad applicare non è il “vero” smart working, bensì una situazione estrema e forzata in cui il lavoratore non ha possibilità di scegliere, ma è vincolato a #restareacasa. Fuori dall’emergenza, il lavoro agile dovrebbe andare al di là del “lavorare da casa” e portare ad una trasformazione del modello manageriale e culturale dell’organizzazione, mentre i lavoratori dovrebbero essere spinti ad assumere una maggiore autonomia, sperimentando nuove modalità di lavoro ed imparando a misurarsi sui risultati. Un simile passaggio culturale, però, non può sicuramente avvenire da un giorno all’altro “per decreto”, necessitando di essere accompagnato da iniziative di sensibilizzazione, formazione e consapevolezza intellettuale.
La funzione del lavoro remoto nella Fase 2: il cambiamento di approccio culturale.
L’utilizzo dello smart working che si sta facendo in queste settimane differisce – soprattutto per intensità – da quella che sarebbe la sua natura. Il lavoro agile nasce e si incardina nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato come alternanza di attività svolta in parte dentro e in parte fuori la sede dell’azienda, laddove la quantità di giorni lavorati fuori ufficio era pari, nella maggior parte dei casi, al 20-40% del totale. I decreti emergenziali che si sono succeduti a breve distanza sono arrivati ad individuare lo smart working come modalità da favorire in senso assoluto, al fine di evitare spostamenti sul territorio e il contatto tra le persone. Il dipendente, in sostanza, non alterna più giornate dentro e fuori l’impresa, ma può trascorrere intere settimane a casa.
L’impianto della legge 81/2017 non è stato modificato e l’unica variazione esplicita e temporanea (attualmente fino al 31 luglio) riguarda la non obbligatorietà dell’accordo iniziale e la semplificazione dell’informativa da dare al lavoratore in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Resta invariato quell’insieme di regole che sono il cuore pulsante della disciplina dell’home working e che è opportuno continuare ad applicare in questa fase di emergenza (lo svolgimento della prestazione in modalità agile non può comportare trattamenti deteriori per il dipendente sul piano normativo e su quello economico, ivi compresa la partecipazione alla retribuzione variabile legata ai risultati). Uno dei tratti qualificanti dello smart working è la libertà del lavoratore dai tradizionali vincoli di tempo, che lo abilitano a scegliere in quale orario della giornata rendere la prestazione. Questo principio è certamente valido, ma deve essere calibrato sulle necessità aziendali, ragion per cui alla maggiore flessibilità di cui gode il lavoratore si deve potere accompagnare il rispetto delle esigenze di coordinamento e di organizzazione del lavoro reso nei locali aziendali.
La valutazione del lavoro passa, in sostanza, dal tempo al risultato, avvicinando, per certi versi, il lavoratore agile al confine con quello autonomo. Le ricadute sul benessere dei lavoratori coniugate alla produttività sono molto diverse e le “indagini sul gradimento” offrono un quadro parziale. In emergenza si fa quel che si può, ma si scoprirà che serve un nuovo pensiero del lavoro che punti su quattro pilastri: libertà, autonomia, responsabilità e fiducia. Questi sono gli ingredienti di un buon contratto fondato sulla capacità di mettersi in gioco, a partire da chi organizza il lavoro. Non dobbiamo considerare questo periodo come vero smart working: ora, nella sostanza, è una necessità indispensabile alla continuità operativa di quasi 8 milioni di lavoratori. In Italia quei pochi che avevano già adottato lo smart working prima dell’insorgere dell’epidemia, mediamente lo utilizzavano per 3-4 giorni al mese. La nostra legge sul lavoro agile lascia liberi lavoratore e datore di decidere come preferiscono organizzarsi, a patto che vi sia un reciproco vantaggio, una situazione win win. Il dipendente risparmia tempo e costi di viaggio, il tempo risparmiato viene reinvestito, almeno in parte, nel lavoro, l’azienda risparmia e vede ridursi le richieste di permessi e i giorni di malattia. La produttività aumenta.
Eppure ci sono delle fortissime resistenze da superare e retaggi culturali che si annidano nelle nostre realtà organizzative, fortemente ancorate al concetto di lavoro che si basa sul “cartellino” e, soprattutto, sulla forma di controllo diretto del prestatore, quale garanzia di risultato.
“Esserci” non vuol dire “produrre”. Si tratta di un approccio che deriva fondamentalmente dalla mancanza di fiducia verso il lavoratore e dal pregiudizio che l’assenza di un controllo immediato sul dipendente – il quale, da casa, potrebbe dedicarsi ad altro – finirebbe per influenzare la qualità del servizio. Lo Statuto dei lavoratori è molto chiaro, e dice che i datori di lavoro non possono usare software aziendali, webcam e le altre tecnologie digitali per capire se lo smart worker è collegato al suo computer, se si trova in casa o se invece sta facendo sport, o per verificare quali siti internet sta utilizzando: oltre a essere contrario alla logica del lavoro agile, questo comportamento sarebbe illecito.
Il timore che dai “furbetti del cartellino” si passi a quelli “della tastiera” è in animo a molti imprenditori – e principalmente alle pmi – che paventano il proliferare di un assenteismo di fatto incontrollato.
Invece, con una buona pianificazione e strutturazione del lavoro agile, si potranno porre obiettivi e costruire sistemi di misurazione di performance efficienti, nonché strumenti per lavorare in autonomia: ossia rimuovere preconcetti e timori e favorire nuove forme di razionalizzazione ed ottimizzazione delle prestazioni di lavoro.
Vantaggi ed insidie dello smart working.
La mancanza di fiducia tra azienda e lavoratori (fonte il Sole24Ore) costa alle imprese – in uno scenario di normalità – mediamente oltre 200.000 € e ai lavoratori 1.300 € all’anno. Gli indici economici ci dicono che in un’azienda media con 100 smart workers, tre giornate al mese, ciascun lavoratore smart risparmia oltre 2 mila euro all’anno tra spese di viaggio e costi aggregati come la babysitter, la lavanderia, i pasti, ecc. Il vantaggio c’è anche per l’azienda: 250 euro a lavoratore all’anno che include indennità di trasferta, buoni pasto. Ma c’è dell’altro: l’adozione di un’organizzazione smart spesso comporta anche il ripensamento degli spazi dedicati al lavoro, cui consegue una riduzione dei consumi energetici e manutentivi, oltre che una riduzione delle richieste di giorni di permesso e malattia mediamente del 15%.
C’è, ad onor del vero, un’insidia di cui tenere conto, quanto meno nella drammatica attualità.
In questa fase emergenziale e sperimentale, la concitazione è nemica giurata della sicurezza informatica e i criminali informatici non vedono l’ora di sfruttare qualsiasi cambiamento per massimizzare i proventi. Anche in passato, con il verificarsi di eventi di grande portata il primo approdo è stato quello della fame di informazioni e, per l’effetto, le caselle di posta sono state intasate di false email con annunci allarmanti.
Moltissime aziende hanno dovuto spostare l’operatività dei loro dipendenti dall’ufficio alla casa, ma questo non è un processo così semplice da compiere per conseguire la massima sicurezza. Le difese informatiche, infatti, sono ritagliate sulla struttura organizzativa dell’azienda e, in caso di modifiche, questa deve essere seguita da un adattamento dei software di sicurezza. Un assaggio lo si è visto in Germania, dove è stato colpito il servizio di consegna del cibo a domicilio, con i criminali che chiedevano il pagamento in bitcoin per mettere fine alla minaccia. Il risultato: molti ordini non sono stati effettuati e chi aveva ordinato da mangiare è stato costretto ad andare a prendere di persona il cibo, così limitando l’efficacia delle misure restrittive ai movimenti personali.
È importante quindi che si pongano le basi per rendere sicuro il processo. Un lavoratore agile direttamente da casa può accedere al database aziendale, contattare clienti, utilizzare strumenti come Skype e simili. Il rischio di infrangere le disposizioni del Gdpr, dunque, è elevato. Le informazioni in possesso dello smart worker sono dati che, secondo il regolamento, l’azienda deve tutelare e proteggere con massima attenzione. E ovviamente uno smart working improvvisato può infrangere queste regole.
Ed ancora. Sappiamo bene che una rivoluzione di tale portata va sostenuta con strumenti e risorse. La rivoluzione digitale è una sfida che non si può vincere senza dirigenti e dipendenti preparati e motivati, in grado di dare quel valore aggiunto ormai necessario anche alla macchina dello Stato. Il lavoro agile, fondandosi sulla logica di risultato, necessita di sistemi di reportistica che lo colleghino alla misurazione e valutazione delle performance individuali e organizzative, sia per il lavoratore in smart working sia per il dirigente che deve realizzarlo in seno alla struttura. Per mettere in pratica lo smart working, e far sì che diventi il normale modo di organizzare il lavoro futuro, risulta essenziale lavorare sulla crescita di infrastrutture e piattaforme digitali adeguate. Per potere arrivare a risultati concreti, è fondamentale investire sullo sviluppo di una cultura della responsabilità e dell’autonomia e su sistemi organizzativi evoluti fondati sulla definizione degli obiettivi, sulla comunicazione e il miglioramento continuo.
Il traguardo dello smart working su larga scala implica la gestione di un processo di cambiamento generatore di nuovi valori e nuove competenze. Con preminenza va ricercato uno standard minimo di competenza digitale per tutto il mondo del lavoro. In questo contesto, la pandemia del coronavirus costituisce, oggettivamente, un acceleratore. Ed è per questo che aziende e lavoratori non debbono essere abbandonati a sé stessi ma accompagnati e guidati attraverso un processo pluralistico e partecipato entro cui va valorizzato il ruolo dei corpi intermedi, quali le scuole di formazione, le società di consulenza e i professionisti. Gli ultimi dati rilevano che sono oltre 1,3 milioni i lavoratori in smart working, di cui 1,1 milioni attivati dall’avvio dell’emergenza epidemiologica. Un lavoro importante è stato svolto nel pubblico impiego, con il comparto della scuola a fare da “apripista”, mediante una serie di interventi normativi e regolamentari previsti con il decreto “Cura Italia”.
Con la prospettiva, sempre più concreta, che il ritorno alla normalità sarà graduale e prudente e che le esigenze di distanziamento sociale non scompariranno in tempi brevi, le tecniche di affinamento del lavoro da remoto sono destinate ad entrare stabilmente nella cifra organizzativa, culturale e competitiva di ogni impresa.
Sta a noi farci trovare pronti.